
«Dovessi restare solo, molto vecchio, affaticato da un cancro e dal tedio di vivere ancora; e se mai accadesse che, ricoverato nel reparto solventi di un ospedale romano, io mi buttassi dal quinto piano e perdessi la vita nella nera malinconia di una giornata di pioggia battente; potrebbe succedere che qualcuno scriva, come per Monicelli, che è stato “lo sberleffo di un laico”. Mandatelo affanculo».
C'è qualcosa di insopportabilmente riduttivo, schematico, leggero, presuntuoso, infine - come al solito da noi - barricadero nei commenti (fiumi) che hanno accompagnato il suicidio di Mario Monicelli. Come se una vita (e che vita) potesse ridursi a un gesto che, se praticato da soli, è comunque di una nobiltà assoluta. E qui non c'entra nulla la religione (bisogna spiegarlo che la condanna del suicidio - termine entrato nell'uso comune solo a metà del 1700 - è cosa 'recente'? Per dire, nei vangeli - solo in Matteo peraltro - c'è un'unica riga su Giuda che s'impicca), la destra (ma scherziamo? E Pierre Drieu La Rochelle?) o la sinistra, se si è felici o infelici, soli o accompagnati. C'entra l'uomo (e che uomo). C'entra ognuno di noi di fronte a una scelta. E quella scelta spesso è disponibile, ma non sempre. E' chiaramente molto più complesso discutere questa casistica ma, per rimanere nei massimi sistemi dell'atto di Mario Monicelli, il 'caso' dell'artista viareggino è limpido, chiaro, essenziale.
E andrebbe accettato per quello che è: una scelta di vita.
P.S. Io non amo i toni forti ma il pensiero iniziale di Giuliano Ferrara mi sembra abbastanza definitivo.
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